venerdì 17 febbraio 2017

Dal libro: "Vaccinazioni: alla ricerca del rischio minore", del Dott. Eugenio Serravalle

"Perchè ho vaccinato i miei figli,
ma non i miei nipoti"

Un modo più sicuro dei vaccini per combattere la malattia

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Sono indicati con il termine “determinanti sociali di salute”. Significano diseguaglianze, mancanza di risorse, lavoro precario o poco sicuro; in una sola parola, povertà. Hanno un impatto diretto e immediato sulla salute. La salute sociale è a tutti gli effetti una questione di vita o di morte. Essa influenza il modo di vivere della gente, e con esso la probabilità di ammalarsi e il rischio di morire prematuramente. E’ dimostrato che la durata della vita di ognuno è fortemente connessa alla classe sociale di appartenenza. Nella popolazione maschile adulta, gli operai hanno una probabilità di morte quasi doppia rispetto agli impiegati. Negli ultimi decenni le differenze tra classi sociali nella durata della vita sono addirittura aumentate.
Un mondo più giusto sarebbe quindi un mondo più sano. Sono le conclusioni cui è pervenuta la Commissione sui determinanti sociali di salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel suo rapporto del 2008.
Lo stile di vita condiziona a tal punto le malattie da cui un individuo viene colpito che esse si differenziano in base al tipo di società cui l’individuo appartiene.

Nelle regioni più sviluppate prevalgono le “malattie del benessere”, derivanti dall’eccessiva alimentazione, dall’inattività fisica, dall’uso di tabacco, alcool e droghe, dall’inquinamento dovuto al traffico e agli scarichi delle industrie. Molte morti premature sono provocate dalle malattie cardiovascolari, dal diabete e da alcuni tipi di tumore, correlate al sovrappeso e all’obesità.
Nelle regioni meno sviluppate prevalgono le “malattie della povertà”, derivanti dalla sottoalimentazione e malnutrizione, dai rapporti sessuali non protetti, dalla mancanza di acqua potabile e servizi igienici, dal fumo dei combustibili solidi (legna, carbone, letame) usati in ambienti chiusi per cucinare e riscaldarsi.
Ciò che importa sottolineare è che in entrambi i casi, ossia quello di una società economicamente sviluppata e di una poco sviluppata, l’individuo ha la possibilità di ridurre le cause che producono le malattie da cui è colpito, e quindi di allungare le proprie speranze di vita, in base alla consapevolezza, alle conoscenze, e in generale alla cultura di cui è in possesso. Il che significa che per migliorare il grado di salute degli individui un fattore significativo è la capacità di acquisire conoscenze e informazioni. Ciò vale nei Paesi poveri come in quelli ricchi, anche se nei primi le pure conoscenze non bastano, in quanto manca il contesto adeguato per applicarle. E’ inutile, infatti, che io conosca l’importanza di lavarsi le mani prima di toccare il cibo, se non dispongo di una sorgente d’acqua, o se la poca acqua di cui dispongo è appena sufficiente per dissetarmi.
Si stima che in tutto il mondo muoiano in media ogni giorno oltre 26.000 bambini sotto i 5 anni; più di un terzo muore di solito a casa senza avere accesso a servizi sanitari di base e a beni di prima necessità che potrebbero salvare loro la vita. Oltre l’80% di tutte le morti di bambini nel 2006 (9,7 milioni) si sono verificate nell’Africa Subsahariana e nell’Asia meridionale; due regioni che, insieme al Nord Africa e al Medio Oriente non sembrano avviate a raggiungere il quarto Obiettivo di Sviluppo del Millennio (OSM 4) che prevede la riduzione di 2/3 della mortalità infantile entro il 2015. Un bambino nato nell’Africa Subsahariana nel 2006 ha 1 probabilità su 6 di morire prima di compiere 5 anni.
Le cifre sulle cause della mortalità infantile dimostrano inequivocabilmente che l’assenza di acqua potabile e di servizi igienici sono tra i principali responsabili dei decessi di bambini tra 0 e 5 anni: alle malattie diarroiche che ne sono la conseguenza si stima vadano attribuiti il 17% dei decessi (circa 2 milioni di bambini all’anno), ben più di quanti non ne faccia morire l’AIDS (3%).
Ciò dà un’idea dell’incidenza che può avere sulle probabilità di vita della popolazione infantile la semplice costruzione di un pozzo per l’acqua potabile, e di servizi igienico-sanitari adeguati.
Come stupirsi poi che su bambini denutriti e dall’organismo debilitato per la mancanza di fonti di acqua potabile il morbillo provochi il 4% dei decessi? In un simile contesto, ha senso rispondere tramite i vaccini contro il morbillo? Non è forse paragonabile a chi fornisse pillole che attenuino i morsi della fame a chi di fame sta morendo, anziché fornirgli cibo?
Solo gli interventi per migliorare le condizioni di vita costituiscono l’antidoto, il vaccino davvero efficace per ridurre l’insorgenza delle malattie e per contrastare la riduzione della speranza di vita.
Occorre ridurre le disparità sociali, permettere l’accesso alle cure a tutti, indipendentemente dalla loro capacità economica. Non basta vaccinare tutti i bambini del mondo per vincere le battaglie contro i virus e i batteri. Occorre rilanciare una politica della salute sui determinanti sociali, sul contesto ambientale e le iniquità presenti tra la popolazione.
“La deleteria combinazione di politiche sbagliate e condizioni economiche negative è in gran parte responsabile del fatto che molte persone nel mondo non godono della buona salute che sarebbe biologicamente possibile. Sono le condizioni di vita quelle che determinano la salute delle persone” (Commission on Social Determinants of Healt)
In conclusione è “l’ingiustizia sociale che uccide le persone”.
Nessuno è responsabile del luogo in cui nasce, eppure una ragazza venuta al mondo nel Paese africano del Lesotho vivrà in media 42 anni meno di una ragazza che nasce in Giappone. Il tasso di mortalità infantile è pari a 2/1000 in Islanda, mentre è del 120/1000 in Mozambico. Se in Svezia il rischio di una donna di morire per complicazioni della gravidanza o del parto è di un caso ogni 17.400, in Afghanistan è di uno su 8.
E tuttavia le linee divisorie che corrono tra le diverse aree del pianeta, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, si intrecciano anche all’interno di una stessa area e di uno stesso Paese. All’interno dell’Europa, l’Italia si colloca a metà strada: le aspettative di vita sono pari a quelle riscontrate in Canada o in Svezia; al di sotto, però, della Francia e della Germania. La posizione nella classifica nasconde naturalmente l’enorme disparità nella qualità dei servizi sociali e sanitari tra aree diverse del Paese. Nell’indagine condotta dall’Istat sui consumi delle famiglie relativa all’anno 2006, emerge che la difficoltà nell’accesso al pronto soccorso e ai servizi sanitari della ASL è significativamente superiore per le famiglie povere: viene dichiarata nel 13,5% dei casi per il pronto soccorso (contro l’8,4% delle famiglie non povere) e nel 10% dei casi (contro il 6,1% delle famiglie non povere).
La divaricazione tra prospettive di vita legate al reddito si verifica alle volte all’interno della stessa città: nel Regno Unito la mortalità di un adulto è 2,5 volte superiore nei quartieri più disagiati rispetto a quella dei quartieri più ricchi. Un ragazzo che vive nella povera periferia di Calton, a Glasgow, vivrà in media 28 anni in meno di un ragazzo nato nel vicino (13 chilometri di distanza) ma ricco quartiere di Lenzie. Allo stesso modo, l’aspettativa di vita media nella ricca Hampstead a Londra è di 11 anni maggiore del vicino ma degradato St. Pancras. Le differenze sono così marcate da non potersi spiegare con fattori genetici o biologici, ma conta “come si lavora, che mansioni si svolgono, le condizioni socio-economiche”. Una volta di più si ha la conferma che la salute è legata alle appartenenze sociali (negli anni 70 si sarebbe detto che la salute è di classe).
Anche all’interno dei Paesi occidentali si verifica un meccanismo analogo a quello già osservato a proposito della politica vaccinatoria in Africa: anziché migliorare il sistema sanitario nazionale, renderlo realmente accessibile a tutte le fasce della popolazione, incrementare la qualità dei servizi, vengono spese ingenti risorse nell’acquisto e nell’abuso di farmaci e vaccini. Un aumento senza limite del numero di vaccinazioni non raggiungerà mai lo scopo, assolutamente irrealizzabile, di eradicare ogni genere di malattia tra la popolazione, mentre alzerà sicuramente i costi del servizio sanitario, con lauti profitti delle case farmaceutiche provenienti dalle tasche del cittadino stesso sotto forma di tasse.
Come ha osservato Jane J.Kim in un articolo sul “New England Medical Journal”, i considerevoli tagli al sistema sanitario nazionale indotti in vari Paesi dalla recente crisi, impongono di concentrare l’attenzione sul problema del rapporto costo/beneficio di ogni intervento. L’autrice, in particolare, invita a riflettere sulle modalità e sulla validità, da un punto di vista sanitario ed economico, della vaccinazione di massa contro il papillomavirus e il meningococco, i due vaccini in assoluto più costosi, a fronte di un vantaggio ancora poco dimostrabile.

La salute di una persona, e quindi di un popolo, dipende dal modo in cui la cultura, la politica e la società condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono in tutti, specialmente nei più deboli, la consapevolezza di sé, la possibilità di accedere alle conoscenze e di utilizzarle come strumento per migliorare il contesto di vita. Di conseguenza, la salute tocca i suoi livelli ottimali là dove l’ambiente genera nelle persone la capacità di far fronte alla vita in modo autonomo e responsabile. La salute, in questo senso, equivale al grado di cultura e di libertà vissuta.