No, non sta portando bene al glifosato e ai suoi signori il discusso e discutibilissimo rinnovo della relativa autorizzazione, concesso ex abundantia cordis dalla Commissione europea di concerto con la maggioranza degli Stati membri
nel dicembre 2017. Da quel momento è stato tutto un succedersi di
pronunciamenti ufficiali – giudiziari e scientifici, europei ed
extraeuropei – uno più pesante dell’altro, contro il noto erbicida.
Su alcuni di questi eventi si è già scritto su questo blog.
Ma la slavina che promette (o minaccia, a seconda dei punti di vista)
di spazzare via dai campi – e quindi dalle nostre tavole – uno dei pesticidi
più pericolosi per la salute pubblica e per l’ambiente è proseguita. In
questo post si illustreranno le più significative evenienze in ambito
giudiziario; per quelle scientifiche si rinvia a un contributo
successivo.
La notizia più recente, in questo campo, viene dall’altra parte dell’Atlantico: la Bayer – che ha ricevuto dalla neoconsorte Monsanto
(la nota “multinazionale che ci voleva bene”) la ricca dote del
Roundup, il più noto degli erbicidi contenenti glifosato – potrebbe
subire una nuova disfatta processuale per mano di una Corte di San Francisco, in California, la cui giuria ha concluso all’unanimità che “il signor Andrew Hardeman (il danneggiato ricorrente, nda) ha provato con evidenza preponderante che la sua esposizione al glifosato è un fattore sostanziale nella causazione del linfoma non-Hodgkin”.
A questo punto si tratterà di decidere nella prossima udienza i
complessivi profili di responsabilità della multinazionale – a partire
dall’adempimento degli obblighi di informazione che sulla stessa
gravavano nei confronti degli utilizzatori del suo prodotto – nonché
l’ammontare del relativo risarcimento allo sventurato agricoltore. Nell’attesa del verdetto, però, si è già registrato un effetto tracollo sulle azioni del colosso tedesco.
Probabilmente, avrà influito in questo senso la recidiva in cui sono incorsi i nuovi e vecchi padroni del Roundup: solo qualche mese fa, infatti, un altro tribunale di San Francisco aveva condannato la stessa Monsanto a versare 289 milioni di risarcimento danni, di cui 250 a titolo di “danni punitivi” (ridotti in appello a 39, per un risarcimento finale di 78 milioni), a Dewayne Johnson,
il giardiniere di una scuola di una cittadina vicino la stessa San
Francisco, ammalatosi pure lui di un linfoma non-Hodgkin anche a causa
dell’esposizione al Roundup. Ma, soprattutto, sarà risultata
discretamente incidente nel crollo azionario di Bayer la prospettiva di
altre 11.200 analoghe azioni giudiziali di danno che pesano sul suo capo sempre negli Usa.
Per venire al vecchio continente, meno di un mese fa è stata la volta del tribunale dell’Unione europea a emettere una sentenza fondamentale,
pur in altro senso, per la tutela del diritto all’ambiente salubre, con
riferimento sempre al glifosato; in questo caso, nella specifica forma
del diritto all’informazione ambientale.
Un cittadino europeo, il signor Anthony C. Tweedale, residente a Bruxelles, aveva chiesto all’Efsa,
l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, di accedere “ai due
‘studi chiave’ utilizzati per determinare la dose giornaliera
ammissibile di glifosato” prodotti nella procedura per il rinnovo
dell’approvazione della stessa sostanza attiva. L’Efsa aveva rigettato
l’istanza del signor Tweedale sulla base di queste illuminanti motivazioni: dopo aver “consultato i proprietari degli studi richiesti” (che erano, incidentalmente, le stesse aziende che chiedevano il rinnovo), l’Autorità si era convinta “che la divulgazione degli studi richiesti avrebbe rivelato il know-how
in materia di competenze scientifiche e la strategia commerciale dei
loro proprietari […] e avrebbe pregiudicato i loro interessi
commerciali”.
Il benemerito signor Tweedale non deve aver apprezzato
particolarmente questa peculiarissima interpretazione della sicurezza
ambientale, e quindi alimentare, dell’Autorità per la sicurezza
alimentare. E ha pensato benissimo di impugnare il diniego all’accesso davanti al Tribunale europeo, dove peraltro ha trovato l’aiuto della Svezia, intervenuta a suo sostegno nel giudizio. E, a quanto pare, i giudici hanno convenuto in toto
con il cittadino belga nel non ritenere di particolare pregio
giuridico, per dirla con grande delicatezza, le argomentazioni
dell’Efsa: “un’istituzione dell’Unione, quando riceve una domanda di
accesso a un documento, non può giustificare il suo rifiuto di
divulgarlo sulla base dell’eccezione relativa alla tutela degli interessi commerciali di una determinata persona fisica o giuridica”. (Trib. I grado Unione europea Sez. VIII, Sent., 07-03-2019, n. 716/14).
Difficile immaginare parole più trancianti. Dalle quali non poteva
che discendere una conclusione: “la decisione dell’Autorità europea per
la sicurezza alimentare è annullata nella parte in cui
l’Efsa nega la divulgazione di tutti i suddetti studi”. Ulteriore,
finale corollario di giustizia: “l’Efsa sopporterà le proprie spese
nonché quelle sostenute dal signor Anthony Tweedale”. Con soldi dei
contribuenti europei, ça va sans dire.
C’è un giudice in Europa. C’è di che esserne lieti e
rincuorati. Solo una constatazione, ineludibile: nell’Unione europea,
oggi, esiste “un’istituzione che, quando riceve una domanda di accesso a
un documento, giustifica il suo rifiuto di divulgarlo sulla base
dell’eccezione relativa alla tutela degli interessi commerciali di una
determinata persona fisica o giuridica”. E un dubbio conseguente: quanto
possiamo sentirci garantiti nella nostra sicurezza ambientale e alimentare se quell’istituzione è proprio l’Autorità europea per la sicurezza alimentare?